Chernobyl, a tre decenni dall’esplosione che sconvolse l’Europa
Sono trascorsi 30 anni dal 26 aprile 1986; da quella tragica notte in cui l’errore di pochi segnò il destino di migliaia di individui. Quando dall’impianto V.I. Lenin, situato in Ucraina settentrionale in prossimità dalle città di Chernobyl e di Pryp’jat, si levò una nuvola di fumo nero e velenoso che contaminò l’area circostante, raggiungendo tutti i paesi europei e spingendosi fino agli Stati Uniti.
L’impianto, apparentemente sicuro e di alto livello, permetteva a migliaia di persone di avere un lavoro ed era dunque una risorsa insostitutibile per una regione che viveva prevalentemente di coltivazioni agricole e di allevamento; un’opportunità unica di crescita economica e sociale che avrebbe dovuto portare il progresso in quella zona rurale e che invece si è rivelata un’arma mortale e distruttiva.
Causato dall’errata esecuzione di un test di sicurezza, aggravata da problemi strutturali dell’edificio e da imperdonabili mancanze del personale tecnico e dirigente, il disastro può essere considerato ancora oggi il più grave mai registrato, non solo per l’alto tasso di mortalità che ne derivò ma soprattutto per gli incalcolabili danni causati dalle radiazioni. Secondo una stima di Greenpeace l’incidente al reattore 4 della centrale di Chernobyl ha avuto un impatto dieci volte più devastante di quello avvenuto a Fukushima nel 2011, pur essendo stati classificati entrambi di livello 7, indicatore massimo di pericolosità.
In seguito all’evacuazione l’intera zona si è trasformata in una immensa città fantasma. Uno spesso strato di polvere e cenere ricopre oggetti di quotidiana utilità abbandonati in fretta e furia dalla popolazione evacuata: libri, giocattoli, suppellettili, simboli di vite interrotte e stravolte per sempre. Le immagini di strade deserte, palazzi abbandonati e spettrali giostre arrugginite, sembrano mostrarci l’esatto istante in cui il tempo si è fermato e raccontano la storia di un’apocalisse tanto improvvisa quanto devastante. L’atmosfera surreale quasi impedisce di immaginarli come luoghi abitati e pulsanti di vita, perché sono luoghi che non vedranno mai un ritorno alla normalità.
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Si calcola che per i prossimi diecimila anni non sarà attuabile una politica di totale bonificazione dei territori situati nel raggio di 10 chilometri dalla centrale, dato l’altissimo livello di contaminazione. Eppure c’è ancora vita a Chernobyl. Molti sono ritornati a vivere nelle loro case; alcuni, soprattutto i più anziani, non le hanno mai abbandonate. Nelle aree limitrofe vivono approssimatamente circa 5 milioni di persone tra Ucraina, Russia e Bielorussia, nonostante le coltivazioni siano tuttora contaminate dal plutonio. Tonnellate di cibo potenzialmente nocivo che continuano a rappresentare l’unica forma di sostentamento per migliaia di famiglie.
Il silenzio inquietante viene spesso interrotto all’allegro vociare dei turisti che attraversano le zone colpite dalla tragedia. Fotografi, giornalisti, ma per lo più semplici curiosi; qualcuno si ferma anche a raccogliere qualche souvenir, senza alcuna considerazione delle basilari norme di sicurezza e del semplice buonsenso.
Non ci sono dati certi sulla catastrofe; nonostante tutte le statistiche e le stime più o meno approssimative di varie agenzie Onu e delle associazioni ambientaliste, non si conosce il numero reale di vittime causate direttamente o indirettamente dalle radiazioni. A 30 anni di distanza il dibattito è ancora acceso e le polemiche sulla pericolosità dell’utilizzo del nucleare non si fermano; Chernobyl è un incubo che continua a tormentare l’Europa.
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